domenica 20 gennaio 2008

La libertà non ha prezzo. 2 capitolo.



Partimmo una domenica di luglio e faceva un caldo boia. Eravamo bagnati dal sudore, tutti. Si tutti, perché alla stazione avevano voluto accompagnarci tutti, solo Franco era rimasto a casa con una ragazza che aiutava mia madre nella faccende di casa.

Eravamo pieni di pacchi e pacchetti, le valigie, i libri e le cibarie che sarebbero andate a male sicuramente con quel caldo micidiale, se non le avessimo liquidate in poco tempo.

Alla fine, la mamma piangeva, mio padre faceva finta di non essere commosso, ma in cuor suo sapeva cosa volesse dire partire per la guerra avendo provato l’esperienza sul Piave durante la prima. In compenso, Gino, Mara, Grazia, Paola e Geltrude ridevano come matti e si divertivano come se fossero ad una festa di compleanno. Non ho mai capito se lo facevano per renderci meno greve l’addio. Ernesto era visibilmente teso e non sapeva se sarebbe riuscito ad abbracciare e baciare la sua amata. Ci riuscì in un momento in cui tutti noi ragazzi distraemmo mamma e papà.

Il treno partì verso Roma e Civitavecchia, dove saremmo entrati nella Scuola allievi ufficiali di complemento, vedevamo all'orizzonte tutti i parenti che si sbracciavano per salutarci. Non vedevamo l’ora di arrivare.

In treno Ernesto mi disse che mamma gli aveva fatto giurare che saremmo sempre stati assieme per aiutarci a vicenda, ma come sarebbe stato possibile? Certamente non ci avrebbero messo nello stesso reparto, forse nello stesso reggimento, ma non assieme nello stesso reparto.

Arrivammo la sera alle dieci e ci toccò fare qualche chilometro a piedi e con le valigie pesanti in mano prima di arrivare alla nostra metà.

“Chi va là ?” Urlò a pieni polmoni la sentinella appena fuori dalla garitta.

“Siamo due allievi” rispondemmo noi all’unisono come se fossimo stati punti da una vespa.

“Venite avanti e fatevi riconoscere, tirate fuori i documenti. Sergenteee… ci sono due reclute, venga qui alla porta”.

Il sergente, un omone con un paio di baffoni indecenti, ci squadrò dall’alto in basso e poi senza rivolgerci la parola disse, con voce roca, al soldato: “falli passare, digli dove possono andare a cuccia e spiegagli bene che la prossima volta, in questa caserma, si arriva di giorno e non di notte.”

Questo fu il nostro inizio, dopo andò meglio.

Il giorno dopo di buon mattino ci svegliarono e ci dissero che dovevamo presentarci al comandante della scuola.

Andammo subito da lui, eravamo due sbarbatelli di 19 anni, a ripensarci ora.

Eppure con il nostro entusiasmo, o la nostra incoscienza, ci presentammo al maggiore Rinaldi. Ci accolse con benevolenza, fece tutto un discorsetto sui valori militari, sulla storia della scuola, sull’importanza della costanza nello studio, sul fatto che eravamo in guerra e non ci potevamo permettere di perdere tempo perché presto saremmo andati al fronte. A questo punto si disegnò sulla sua fronte una strana ruga espressiva, sembrava una cicatrice.

Ci stava guardando con compassione, probabilmente stava pensando a tutto quello che il futuro ci riservava. In quel momento non ci facemmo caso, ma qualche mese dopo, prima della partenza dalla scuola ci fece un altro discorso che ci fece capire il senso di quello sguardo triste.

I nostri sforzi e l’impegno nell’addestramento, furono ben presto premiati.

Bisognava terminare il corso entro sei mesi, perché la guerra incombeva e noi a gennaio eravamo quasi pronti. Ci dissero che a febbraio del 1941 ci sarebbero stati gli esami finali e poi finalmente avremmo potuto avere il brevetto di ufficiale: Sottotenente per l’esattezza, s.Tenente, come scrivevano tutti per rimarcare il grado di Tenente e nascondere quel “sotto” che ci stava proprio male. Appena avuta la divisa di ufficiale andammo subito dal fotografo per farci fare i ritratti da inviare a casa. Ernesto si fece fare due foto, una con lo sguardo ancora più spavaldo, se possibile, da inviare a Mara con la sua dedica più focosa e un’altra alla zia che gli scriveva ogni settimana anche lei.

Si era fatto crescere il pizzo come Italo Balbo e mostrava dieci anni di più dei suoi vent’anni appena compiuti. Era il gennaio 1941. La guerra cominciava ad essere subito problematica per gli italiani e i nostri alleati erano sempre più insofferenti verso di noi, ma per il momento erano lontani.

Come eravamo felici. Ma felici di cosa? La guerra e i suoi pericoli ancora lontani, noi eravamo diventati ufficiali del regio esercito e le ragazze di Civitavecchia si giravano a guardarci quando passeggiavamo per strada. Che bella vita.

Ma presto vennero i guai, eravamo stati assegnati al 4° reggimento carristi, Ernesto era contento, ma per me non era il massimo. Volevo qualcosa di più ardimentoso, ero o non ero il figlio di un ardito della prima guerra mondiale. In fin dei conti mio padre si era guadagnato anche una medaglia sul fiume Piave, fiume sacro alla Patria come era scritto sui nostri libri di scuola.

Quella croce di bronzo appesa nel salotto di casa all’interno del quadretto che riportava anche la motivazione: “Al tenente degli arditi Giuseppe Simonetti, Comandante di una sezione di lanciafiamme, perché durante un intenso conflitto a fuoco, si slanciava con i suoi uomini muniti di lanciafiamme, contro le trincee nemiche…” mi ritornava sempre alla mente.

Anche io mi volevo distinguere e tornare a casa, dopo la guerra, con le mie medaglie da mostrare ai miei figli e agli amici.

Così dissi ad Ernesto che si stava costituendo un nuovo reparto d’assalto, era il XXX reggimento Genio Guastatori. All’interno di quel reggimento c’era una compagnia, la sesta, che era stata soprannominata “Teste dure” perché formata in gran parte da sardi e che aveva sede proprio a Civitavecchia.

Ernesto mi disse che ero un pazzo a voler fare il guastatore, erano in pratica l’equivalente dei commandos inglesi. Lui li aveva visti mentre si addestravano a fare esplodere chili di dinamite, mentre loro si accucciavano in una buca a pochi metri di distanza, facendo attenzione a non appoggiare il ventre a terra perché la vicinanza e le vibrazioni del terreno potevano causare lesioni interne. Per lui erano proprio matti e non era il caso che noi si dovesse fare per forza gli eroi. Era bastato rinunciare all’Università, partire volontari e fare gli ufficiali. Ma io no, sul punto mi ero davvero incaponito. Per una settimana gli feci il lavaggio del cervello, lo portai persino a parlare con il cap. Lumachi, veterano della prima guerra mondiale, che era il comandante della compagnia. Lumache si disse ben contento di prenderci subito perché erano a corto di effettivi e ci avrebbe dato subito il comando di due plotoni, non prima di un corso accelerato di addestramento perché un comandante doveva saper fare tutto quello che facevano i suoi soldati.

Ernesto alla fine cedette, ma lo vedevo che non era per nulla contento.

Dopo due settimane di addestramento, mi disse che lui non era tagliato per quella vita e che gli dispiaceva molto ma aveva deciso di entrare nella Guardia alla Frontiera (GAF) che erano reparti speciali destinati al presidio ed alla difesa dei confini della Patria, anzi lui disse “dei sacri confini della Patria” per dare più enfasi alla sua decisione. Avemmo una lunga discussione sull’argomento, ma ci lasciammo comunque da amici come sempre. Non gli dissi che mi sembrava un tradimento del suo giuramento a mia madre, perché anche io gli avevo forzato molto la mano e mi sentivo un po’ in colpa nei suoi confronti. Giurammo comunque che ci saremmo tenuti sempre in contatto.

Quella discussione durata una notte intera, credo che servì ad entrambi. Credo che da quel momento le nostre certezze di ragazzi fascisti cominciarono a vacillare. Ernesto cominciava velatamente a dirmi che non era poi così sicuro che fosse giusto invadere dei paesi stranieri e portare morte e distruzione sulle popolazioni, io cercavo di spiegargli cose che lui stesso aveva sentito centinaia di volte dai nostri professori, dai discorsi del duce e dai nostri libri di storia. L’Italia era stata trattata male dai suoi alleati nella prima guerra mondiale, non aveva avuto i giusti riconoscimenti territoriali e nemmeno adeguate colonie in Africa o in altri continenti. Perché Francia e Inghilterra avevano quel vasto impero coloniale e noi no ? Persino l’Olanda aveva le sue colonie. Ma mentre affermavo quegli argomenti, mi venivano in mente altre storie di guerra. In particolare una che mio padre mi aveva raccontato prima di partire in un momento di intimità tra noi.

Fronte del Piave maggio 1918. Si attendeva un’offensiva del nemico che si pensava stesse accumulando truppe e materiale bellico lungo la riva sinistra del Piave. Gli arditi erano accasermati a Meolo a pochi chilometri dal Piave e spesso andavano in missione, nelle notti senza luna, sull’altra sponda, attraversando il fiume o a nuoto oppure su zattere di fortuna. Ma non bastava, occorreva trovare una posizione elevata per installare degli osservatori muniti di binocolo per scrutare le mosse del nemico. Era praticamente in un territorio completamente piatto e a volte anche sotto il livello del mare. Fu così che una squadra di uomini comandata da un suo commilitone si era imbattuta in una casa sperduta dentro una boscaglia nella golena del Piave. Era proprio l’ideale perché aveva tre piani e dal tetto certamente si sarebbe visto oltre l’argine sinistro del fiume.

La casa era ancora abitata da una famiglia di contadini, che aveva osato sfidare l’ordine di evacuazione delle popolazioni dato dal generale Diaz dopo la formazione del fronte del Piave.

Il contadino faceva resistenza all’ordine del tenente italiano di andar via tutti da lì e rispondeva sempre più agitato e in dialetto veneto che non poteva lasciare la casa, tutti i suoi averi, la sua famiglia e le bestie nella stalla, ma il tenente, che era di Roma e capiva pure poco quello che il contadino diceva, spazientito, aveva estratto la sua rivoltella, l’aveva puntata alla testa del contadino e dopo pochi secondi l’aveva freddato, alla presenza della moglie e dei figli. Mio padre non aveva assistito, ma l’episodio gli era stato raccontato da alcuni soldati che erano rimasti disgustati. Lui non aveva fatto commenti con i soldati, ma aveva affrontato il suo collega e gli aveva espresso tutto il suo disgusto. Ma lui aveva risposto che questa era la guerra e che non avrebbe potuto fare altrimenti.

Era vero? Ancora allora, nel momento in cui me lo raccontava, mio padre se lo chiedeva e raccontandomi quel triste episodio di guerra voleva calmare i miei bollori di ragazzo e i miei entusiasmi verso la guerra.

Questa storia, che avevo quasi dimenticato, mi venne in mente mentre parlavo con Ernesto e capì, ancora solo incosciamente, che forse non era il caso di insistere sul valore della guerra e del nostro voler essere eroi, soprattutto in quel frangente in cui noi italiani non difendevamo la Patria, ma semmai eravamo gli oppressori di altri popoli.


7 commenti:

Kniendich ha detto...

Credo che oggi dovremmo più che la patria, difendere noi stessi da una minaccia ancora più subdola... la gestione politica ...
Bel racconto, utile da leggere...

Ti abbraccio

Lara ha detto...

sì, complimenti Rob.

E' giusto toccare con la mano del ricordo, l'orrore di un passato che potrebbe essere anche non tale per alcuni che non l'hanno vissuto.

Bravo, sono commossa!

Nikita ha detto...

...ci sono stata sulle rive del Piave...ci sono stata più volte, ma ogni volta la memoria va ai racconti di guerra letti a scuola. Fa effetto vedere il lento scorrere del fiume e ripensare a quello che è accaduto in quei luoghi.
Se posso permettermi un'osservazione più personale, direi che questo racconto ti rappresenta Rob. In che modo?? continua a scriverlo, te lo rivelerò strada facendo.

Nikita

rob ha detto...

Grazie a tutti, questo racconto mi tormenta da anni.
Sono anni che vorrei scriverlo, ma non so ancora come fare.
Vedremo cosa verrà fuori.
Grazie per la vostra pazienza.
Preciso che devo a Nikita, alla quale va una dedica speciale, se mi sono deciso a mettrlo in rete.
A presto, baci e abbracci.

Nikita ha detto...

Grazie per la dedica speciale, ma il tuo racconto era già lì, pronto a nascere, aveva solo bisogno di una piccolissima spinta.
Nikita

Mimmo ha detto...

...hai fatto bene.
è splendido. :)

complimenti.

rob ha detto...

Grazie Mimmo, il bello forse deve ancora venire. Io ho già tutto in mente, ma non so se riuscirò ad esprimerlo come si deve.